GIANNI DE TORA

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1982 "Napoli '82 quasi una situazione" - Castel dell'Ovo Napoli 12-27 marzo

 
INTERVENTO DI ENRICO CRISPOLTI SUL CATALOGO DELLA MOSTRA

Per una (ri)costruzione

Credo - e l'ho detto più volte da parecchi anni - nella ricchezza delle miniere dell'arte contemporanea napoletana (per campana, s'intende) di ieri e di oggi, nelle potenzialità della sua disagevole e non gratificata condizione. E più volte ho sottolineato le ragioni della sua esclusione (che colpisce in realtà l'intera situazione meridionale, dico a Sud di Roma) dal consueto e ufficializzato panorama artistico nazionale, delle diverse più o meno illustri patrie storiche dell'arte contemporanea. Ragioni che sono soprattutto quelle di una stretta rispondenza all'economia dell'industria culturale del settore (per quanto alquanto artigiana), dominata da interessi centro-settentrionali, quando non del tutto settentrionali, e che dunque del Mezzogiorno (come è del resto dall'Unità a oggi, ma con rinnovato vigore predatorio dal secondo dopoguerra, per l'intero quadro economico- sociale meridionale) fa soltanto terra di rapina; o dalla quale importare cervelli, cioè operatori artistici (che infatti anche per la generazione più giovane in campo oggi in Italia sono in parte significativa meridionali, e anche campani, nelle punte di diamante), o nella quale imporre i propri prodotti. O mercato di manodopera a prezzo vantaggioso, o mercato per le proprie produzioni. Ciò che è negato pervicacemente è una possibilità di autonomia economica, una possibilità di autonomia culturale, un qualsiasi segno insomma di alternativa liberatoria. Quelle ricche miniere vanno dunque ignorate, negate, chiuse sotterra; quelle potenzialità spiate e colte soltanto per trarne un profitto a beneficio altrui. Stravolte dunque, espropriate. E infine così, come realmente tali, annullate. E s'è detto ormai infinite volte, e ho detto io stesso più volte, che ciò av- viene (dall'Unità del resto) con larghe agevolazioni permesse dalle connivenze locali, dalle connivenze di chi affida le proprie speranze di profitto al soldo del colonizzatore, di chi appunto degli interessi prevaricanti di questo si fa connivente consapevole. Di qui dunque la persuasione a modelli esproprianti, anziché l'azione ad una presa di coscienza della propria voce, della possibile e diversa voce della proprie potenzialità. Mentre il rovesciamento della tendenza - e la lotta è da anni chiaramente in questa direzione - è nella sollecitazione alla consapevolezza della proprie potenzialità specifiche, dei segni peculiari del proprio specifico patrimonio culturale, che del resto marcano così profondamente (da caratterizzarlo subito in un panorama nazionale onestamente oggettivo) gli esiti salienti recenti o meno di una condizione di ricerca. Della quale ci si offrono le ricche miniere di un recente passato, e l'insieme di presenze molteplici e in genere molto tese. Il terremoto ha impresso un colpo drammatico a questa condizione, ma vi ha impresso anche una possibilità di sollecitazione ulteriore alla consapevolezza del proprio specifico. In questo senso il terremoto è anche un'occasione che può essere capovolta in positivo. Esattamente nel positivo di un investimento rispetto alle proprie potenzialità, nel senso di saper cogliere la consistenza e il peso del proprio patrimonio, di saperne ripercorrere le motivazioni centrali, caratterizzanti. Molti sciacalli in occasione del terremoto si sono manifestati. E c'è anche chi, nel settore, ha immaginato che l'occasione potesse offrirsi per un'ulteriore opera predatoria, per un'ulteriore esibizione di sfacciato colonialismo culturale. Ma nessuno poteva in realtà illudersi che il terremoto avesse spezzato via, anziché semplicemente stanarli, sciacalli o colonizzatori. Dunque semplicemente la lotta continua, e con tuttavia una motivazione in più. Perché proprio l'emergenza può essere invece l'occasione per costruire anziché semplicemente ricostruire, per cioè progettare un diverso utilizzo delle proprie risorse, e dunque di quel proprio specifico patrimonio di recente passato o di pressante presente. Dàlle ricche miniere dell'arte napoletana vengono suggestioni molteplici di tensione creativa. Vengono indicazioni di presenze in qualche caso capitali del dibattito attuale. Termini di un confronto dialettico rispetto al quale andrebbe condotta ogni operazione d'importazione culturale, perché non risulti banalmente soffocante. Ma sono presenze che in realtà esistono in un contesto che è sia realtà antropologico-sociale in senso generale, sia intreccio di un tessuto specifico di cultura artistica che nasce da una molteplicità di situazioni personali di ricerca. Un tessuto che è imprescindibile da quell'investimento sulle proprie potenzialità, del quale si diceva. Questa mostra, quasi di una situazione, è un'occasione di verifica dell'estensione e dell'articolazione interna di quel tessuto, tracciando appunto la «silhouette», non chiusa però, di una situazione. La base attuale di quella ricchezza patrimoniale alla quale ci si riferisce. L'invito è ad un confronto e ad una riflessione, la quale ultima certamente deve andare sul senso di più convincente utilizzo operativo delle potenzialità di quella situazione data, e proprie

 
INTERVENTO DI MASSIMO BIGNARDI SUL CATALOGO DELLA MOSTRA

Appunti napoletani

1) - Una verifica della situazione artistica napoletana (nell'area urbana) degli Anni Ottanta, relazionata alla crisi ed alla precarietà del dopo terremoto, impone una precisazione ed una revisione sul metodo di ricerca e di analisi del tessuto produttivo, nei termini di produzione artistica (ed anche di mercato), collegata alla funzione che essa assolve nel contesto generale del sociale. Un territorio umano ampiamente diversificato, ove le stratificazioni dei ceti sono numerose e varie tra loro, formulando una «realtà» altra, che si ripropone non in termini di «questione meridionale» così come proposto, nel tentativo di connessione della ricerca artistica con le strutture sociali, o della riduttiva e semplicistica «città moribonda» espressa anni addietro da Achille Bonito Oliva. Al contrario, di detonatore di una situazione in se esplosiva, in senso politico, offrendo un banco di prova e di verifica dei nuovi indirizzi di gestione della città. Un territorio, dicevo, dalle forti tensioni, delle rivolte spontanee, percorribile (nella sua tortuosità) a tratti, a volte impenetrabile per la stretta connessione dei rapporti e delle stratificazioni di eventi e situazioni. Una città, quella di Napoli, un'area, cosi come gran parte del Meridione, vittima di uno sviluppo industriale imposto, ove i nuovi insediamenti sconvolgono la realtà economica e sociale: l'economia del piccolo artigiano; i legami di vicinato; il dialogo con la strada e con gli eventi naturali; la ritualità ancestrale. In tutto ciò si insinua sempre di più, sostituendosi all'immagine della società contadina, il pietistico e superficiale volto dell' ''assistito''. Un'immagine anch'essa imposta a cui le realtà operative locali oppongono concrete alternative indirizzate a ridefinire il ruolo delle così dette periferie in cui si verifica (maggiormente) lo scollamento e il degrado delle realtà e dei rapporti socio-politici. Si disegna un profilo di un rinnovamento sociale che, nelle sue linee, rinunzia all'immagine dell'emigrato (anche culturale) o del sopravvissuto, figura già contestata dai movimenti giovanili sessantotteschi. A questo è da ricondurre il salto politico e in parte il rinnovamento sociale della metà degli Anni Settanta, oggi in una nuova crisi di credibilità politica, nel nostro Mezzogiorno. 2) - La verifica, che oggi si propone anche se in un indefinito «quasi», recupera gran parte degli operatori artistici attivi nella città di Napoli e nella sua immediata periferia, realizzando un'ampia schedatura dei profili e delle attività svolte, nonché di un repertorio aggiornato, nelle linee essenziali, bibliografico dei singoli artisti: materiale questo che contribuisce alla conoscenza e nel contempo al formularsi di una effettiva storia dei momenti artistici napoletani. Un'indagine da proporsi larga e meticolosa, che eviti la ghettizzazione o il formarsi di punti di forza, per alcuni versi oggi trainanti pseudo discorsi artistici, che in sostanza rispecchiano aspetti ed operazioni dai chiari caratteri manageriali. L'idea non vuole essere però di storicizzazione di artisti, di movimenti o di gruppi, operazione che appare affrettata e che, in misura esauriente, affronterà la mostra «Napoli 50/80», da tempo in cantiere. Verifica delle ricerche in atto, panorama ampio di lavori, di rilettura (come in alcuni casi) del «ritorno allo studio», o meglio del così detto «riflusso» o « ritorno al privato». Quindi non un precipitoso storicizzare, in alcuni casi precoce, speculazione in funzione dell'utilità del mercato, a cui assistiamo da anni, circostanze (si vedano alcune mostre recentemente organizzate) in cui spesso gli artisti napoletani sono stati esclusi, fatta eccezione dei pochi nomi su cui non era possiblle tacere e dei sempre presenti transavanguardisti. Occasioni in cui si è negata l'importanza assunta dalle ricerche nel e sull'ambiente, che hanno caratterizzato il panorama artistico meridionale e italiano, rispecchianti «rnarginalità», in aree già marginalizzate. Le linee della mostra «Napoli, situazione '75» espressero il livello produttivo, verificandone la validità e proponendo il superamento di schemi di vecchio paternalismo (dal tono centralistico-proprio di personaggi culturali dell'immediato dopoguerra e degli Anni Sessanta) o di difesa di privilegi di una cultura elittaria, codista, dai marcati accenti esterofili. «Napoli '82: quasi una situazione» è indefinita nella sua stesura da quel quasi che rapporta le presenze a le non chiare assenze: una mostra collettiva (di mercato e per un fine sociale quale quello che si propone la Fondazione 21 ottobre 1979), che non sottolinea dislivelli; un rapportarsi paritetico di forze attive, marginali in alcuni casi, ricollegabili al denominatore comune di lavori in corso. L'intenzione è di effettuare una lettura delle esperienze artistiche in un'area ben definita e caratterizzata quale quella napoletana, evitando cedimenti e chiusure in provincialismi, sollecitando, al contrario, una presa di coscienza culturale che si riallacci a situazioni internazionali. Ma anche una volontà di proporsi nell'ambito del mercato e del collezionismo privato, in parte chiuso alle forze locali, effetto anche della inesistenza di spazi pubblici aperti alla grande fruizione. Elementi che appaiono precisi e dettagliati nelle operazioni, quale la tanto vociferata «mostra per il terremoto», in cui il ruolo degli operatori artistici locali (anche in senso campano) è ridotto a mera e personale presenza, sostituiti da artisti completamente estranei, cosa che appare grave, alla realtà della Napoli di oggi. Vuol dire continuare ad importare modelli culturali (in questo caso si può liberamente parlare di stylings), marginalizzando situazioni locali dal precario quotidiano: significa prefigurare ed incentivare l'immagine dell'emigrato culturale, come fu per la generazione a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta (esempi come Biasi, Del Pezzo, Di Bello, ecc. ecc.) per finire alle forze attive nell'ultimo decennio (Davide, Jannini e così via). Livelli e politiche culturali queste che spiegano i notevoli vuoti storiografici, come per fare un esempio la poco e mal definita collocazione data ad artisti quali Tatafiore, Venditti e Palumbo (di recente scomparsi), di cui oggi più che mai si richiede un'indagine retrospettiva, che li rapporti e li collochi nella storia dell'arte italiana del secondo dopoguerra. 3) - Ma occorre qui puntualizzare (analizzandole per sommi capi) le linee di quella storiografia sin ora prodotta, dagli Anni Cinquanta alla fine degli Anni Settanta, il cui metodo, le stesse scelte o chiusure, appaiono poco chiare ed in alcuni casi faziose. Anche se è da proporre una revisione in senso critico (indirizzata sul metodo d'indagine), restano come riferimenti d'obbligo gli articoli di Oreste Ferrari (Primi appunti per un 'indagine sull'arte contemporanea a Napoli, in «Realtà del Mezzogiorno», aprile, 1962) e di Lea Vergine (Inchiesta sulla cultura a Napoli, in «Marcatré», n. 14-15, 1965, preceduto da Aspetti di vita artistica napoletana, apparso in «I 4 Soli», n. 5/6, Torino 1959), a cui seguono, il volume di Ciro Ruju (Possibile ipotesi per una storia 1950-1970 dell'avanguardia artistica napoletana, Napoli, 1972) e la raccolta di documenti e testimonianze curata da Luciano Caruso (L'avanguardia a Napoli - Documenti 1945-72, Napoli, 1976) in-completa e in parte anche esclusiva di situazioni a quella data (1976) già in fase di verifica. Nel caso di Caruso non si spiega la voluta chiusura a quelle attività collegate all'ambiente, come già detto, verificate nella rassegna «Napoli, situazione '75», ma anche di operatori da lungo tempo attivi (si fa l'esempio di Ciro de Falco, di Riccardo Dalisi e di Annibale Oste). Eppure Caruso appare tra i più attenti e precisi, in termini di lettura storiografica, delle situazioni culturali napoletane: si vedano le ricerche e le osservazioni stimolanti sulle vicende culturali degli Anni Trenta a Napoli. Certamente più coraggioso e ampio appare il volume di Ruju, preannunziato dall'articolo, Avanguardia a Napoli (apparso in «Le Arti», 1971) seguito dalla presentazione al catalogo della mostra «Napoli, situazione oggi» organizzata dalla Galleria Caiafa (Napoli, 1972). Le sue provocazioni, formulate sotto forma di interrogativi posti al lettore, sono ancora oggi argomento aperto: quali il problema della Galleria d'arte moderna; del perché gli artisti si allontanano da Napoli. Indicazioni di fondo su cui spesso sono intervenuti Filiberto Menna (si cita solo per esempio: La ricerca artistica meridionale e le strutture sociali della comunicazione estetica, intervento al catalogo della mostra «Ricognizione '71 », S. Maria di Capua Vetere, 1971) e di Enrico Crispolti nella sua, anche se per accenni, sistemazione delle vicende artistiche degli Anni Settanta in Campania (Il secondo dopoguerra, in «Voce della Campania», n. 13, 1980). Argomenti allora come oggi di ampia attualità e fortemente stimolati da quel rinnovamento politico che appare, all'orizzonte precario della realtà napoletana (ma anche di tutto il Meridione), come un nuovo segnale. Un segnale recepito, anche se con ritardo, dalla Soprintendenza alle Gallerie, di questo va fatto merito al soprintendente Raffaello Causa ed a Nicola Spinosa, che hanno aperto le porte di Villa Pignatelli all'organizzazione di mostre antologiche di artisti napoletani: si inaugurò con Barisani, nel 1977, poi Alfano, Pisani, Spinosa fino a quella, dopo la pausa-causa il terremoto di Bugli, per finire a quelle programmate per quest'anno di Di Ruggiero e Starita. Di certo un sintomo piccolo ed anche squilibrato rispetto alla totale assenza di spazi aperti alle nuove generazioni, spesso vittime di salette a pagamento. Fondamentalmente l'esigenza di spazi polivalenti, interdisciplinari, luoghi di confronto paritetico, dal facile accesso, non caratterizzati da gestioni personali. Un tentativo di decentramento culturale, rispetto ai luoghi sacri della cultura italiana, che ponga fine alla dipendenza di Napoli, ma anche dell'area meridionale, dai centri come Roma e Milano. Non certamente un museo esacrativo di una chiusura provinciale e strapaesana, bensì un laboratorio di verifica e di confronto con la cultura italiana e internazionale di cui Napoli, sino ad oggi, ha espresso una significativa presenza.

 
 
cartoncino di invito
 
 
INTERVENTO DI UGO PISCOPO SUL CATALOGO DELLA MOSTRA

Vettori in campi scissi

La situazione artistica napoletana del nostro tempo lascia trasparire contro luce precise omologie e interdipendenze col più generale contesto della vita sociale politica e intellettuale della città e del suo retroterra. Riguardo a questo, dai check-up, da qualunque parte promossi e comunque manovrati, risultano alcuni incontrovertibili dati: l'enfatizzazione del terziario (su 10 lavoratori, 5 sono nei servizi, 3 nell'industria, 2 nell'agricoltura) e la connessa crescita dei livelli di improduttività e insieme della disponibilità alla delega e alla regressione verso forme di vita tutoriamente protette; i vasti, quasi sconfinati, giacimenti di energie di lavoro disoccupate, inoccupate, male occupate (per ogni lavoratore 2 non appartengono alle forze del lavoro), e quindi la diffusa frustrazione di gruppi e di forze che si trovano respinti e mortificati nel loro slancio e nella rivendicazione di un ruolo e di una funzione; forme esasperate di sfruttamento, entro una griglia consolidatissima di consuetudini parassitarie, contro il sorgere di forme nuove di rapportarsi al lavoro, al seguito del delinearsi di alcune fondamentali novità produttive sul piano aziendale e industriale, gravemente però insediate adesso dalla recessione e dall'inflazione; coagularsi di barbe clientelari attorno all'asse di qualche partito di etimo popolare, come la DC, che intanto si è andato qualificando storicamente o comunque è stato fatto funzionare come forza d'equilibrio fra esigenze corporative disomogenee, fra rivendicazioni di congreghe, fra richieste assistenzialistiche; miscelazione e fluidificazione di spinte, proteste, esigenze di crescita civile e democratica, da una parte, e risposte riduttive o rigidamente burocratiche dei partiti della sinistra storica, impreparati o incapaci di gestire concretamente le opportunità della mobilità sociale e politica, dall'altra, mentre si sono venute e si vengono consumando, entro tempi brevissimi, ipotesi millenaristiche e palingenetiche di forze d'intenzione radicaleggiante; scopertura di spazi sempre più ampi all'immobilismo e al deterioramento della società civile, e oggettiva egemonia di tre forze fondamentali: qualunquismo, camorra e terrorismo, che forniscono i più efficienti modelli di comportamento alla popolazione; molteplici e drammatiche esigenze di riqualificazione, di risanamento, di valorizzazione, di sviluppo, e assenza o latitanza di controparti, soprattutto di controparti credibili. Queste, le coordinate essenziali della situazione napoletana politico- economico-sociale, (che, tra l'altro, pare proporsi a paradigma di future evoluzioni del Paese, se è vero che il processo di meridionalizzazione dell'Italia e dell'Europa, continua e si rafforza, come segnalano referti e prognosi di addetti). Veniamo alle arti, che non possono non collocarsi in tale contesto. Sarebbe semplice, se non semplicistico e insieme ingeneroso nei confronti delle energie e delle speranze impegnate sul campo, dedurre o delineare le omologie dalle coordinate sopra elencate. Andiamo, perciò, ai fatti. Che sono questi: contro stanche, vesperali, sempre più circoscritte superfetazioni e tautologie di etimo accademico e affine o di provincialismo ruralistico, si intensifica il dialogo con l'Europa o con le città più vive del Paese, o attraverso occasioni individuali e di gruppo riguardo a incontri e a confronti o riguardo a prospettazioni di dialettiche diversificazioni o di svolgimenti e anticipi; intanto si sviluppa simultaneamente un intreccio di posizioni orientate dove maggiormente a verificare i fisiologici esiti del discorso delle avanguardie, dove, per una scommessa sulla comunicazione e sull'urgenza del contatto umano, si sottolinea meno l'interrogazione storica (di poetiche, di movimenti, di grammatiche e di codici), per puntare sulla ricchezza del linguaggio, sulla declinabilità e coniugabilità dei segni, dei timbri, degli accenti. Con pazienza o impazienza, mentre bussano alle porte individui e gruppi, che chiedono di avere la cittadinanza come operatori estetici, la situazione è in tensione e sul punto di compiere un salto. Ma ci vuole un colpo di reni, che non può darlo l'elemento soggettivo costituito dagli operatori. Qui dovrebbe intervenire il sociale, che, ahimé!, è quello che è. E il sociale a Napoli si attiene a norme di rigorosa mediocrità, ad espedienti di improvvisazione e di pirateria, a sortite prevaricatorie, non immotivate in rapporto al contesto generale. Tra il prodotto estetico e la stessa potenzialità della situazione da una parte e i destinatari e il pubblico dall'altra c'è di mezzo il mare ... della committen- za, del mercato, della pubblicità, dei filtri critici, di quelli che psicologici e pedagogisti chiamano «effetto di alone» e «stereotipia». (Purtroppo, né il testo va al lettore, né il lettore va al testo, attraverso sentieri di verginità dal politico, dal semantico, dal commerciale. Il viaggio della testualità o alla testualità, per suggestione di quello che Starobinski chiama «l'occhio vivente», procede per eteronomia). E, a Napoli la committenza o sconta gravi ritardi o rispetta modelli di im- pianto parassitario; gli operatori di mercato, per lo più sono estremamente fragili; i canali della persuasione non hanno molta affidabilità né puntualità. Non resta che una situazione che parla a se stessa, con un grande spazio vuoto o quasi di fronte.

 
 
RISORSE AGGIUNTIVE
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